Le antiche popolazioni della Ciociaria
La provincia di Frosinone occupa una parte di quello che nell’antichità era definito Latium adiectum e che, pressapoco, occupava la regione da Palestrina (l’antica Praeneste), che faceva ancora parte del Latium vetus, fino al Garigliano.
La storia del Lazio meridionale è sempre stata legata, più o meno in maniera evidente, a quella di Roma (si pensi per esempio alla conquista romana di questa zona, oppure, in periodo medievale, alla presenza del papato ed alle continue lotte tra le nobili famiglie del territorio), ma prima dei Romani questo territorio fu occupato da una grande varietà di popolazioni.
Alla preistoria risalgono resti che documentano la presenza umana nella zona: è noto, infatti, il ritrovamento a Pofi, in località Campogrande, del fossile umano più antico in Italia e tra i più antichi d’Europa. Si tratta del cranio di un maschio adulto, familiarmente chiamato Argyl, l’uomo di Ceprano, e datato tra 900.000 e 800.000 anni fa.
Da Anagni provengono una serie di manufatti in selce ed in pietra lavica che risalgono al paleolitico Inferiore. Si tratta di una delle industrie litiche più antiche d’Italia e che, assieme ad alcuni resti umani, dovrebbero essere pertinenti ad un Homo Erectus Pekinensis.
La Valle del Sacco ha costituito anche in tempi recenti una fonte di scoperte eccezionali: la presenza di una risorsa molto importante quale era il fiume, la vicinanza con i Monti Lepini e la zona che costituiva un passaggio importante con direttrice nord-sud, determinarono la scelta del sito di Casale del Dolce (Anagni), dove, durante i lavori di costruzione della TAV, sono state rinvenute delle strutture insediative, tra cui una capanna, ed una necropoli, con tombe a grotticella, datati tra la prima metà del V ed il III millennio a.C.
Pochi sanno, però, che la storia della Ciociaria va molto più indietro nel tempo e, proprio le recenti scoperte archeologiche, hanno permesso una rivalutazione di questa terra, che non ebbe solo un ruolo marginale in funzione di Roma.
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Atina: guerriero sannita |
Sono, infatti, molto importanti le scoperte effettuate lungo il bacino del fiume Sacco, in particolare presso Ceprano ed Anagni, le quali documentano alcune delle più antiche presenze umane in Italia. Tuttavia, resti preistorici sono distribuiti in maniera sparsa in tutta la Ciociaria, specialmente lungo i percorsi fluviali (Sora, lungo il Liri), o in zone ricche d’acqua (Arce).
Le prime testimonianze storiche delle popolazioni che s’insediarono all’interno del Lazio meridionale, in particolare della Ciociaria, risalgono purtroppo ad un periodo di molto successivo alla conquista romana della zona ed offrono un quadro molto limitato di quello che doveva essere questo territorio tra l’VIII ed il IV secolo a.C.
Dalle descrizioni fatte dagli storici romani si deduce che l’attuale Ciociaria in quel periodo era occupato da un vasto mosaico di popoli, i quali sfruttarono al meglio le risorse che questo territorio offriva (agricoltura, pastorizia, minerali, legnami, etc.). La stessa conformazione della zona consentiva il controllo della stessa e, contemporaneamente, facilitava i commerci con il nord del Lazio e la Campania. Le valli segnate dai fiumi Sacco e Liri costituirono, infatti, dei corridoi naturali, attraverso cui molte popolazioni si mossero. La valle del Sacco, in particolare, metteva in comunicazione il sud Italia con la campagna romana e da qui verso l’Etruria; mentre la piana tagliata dal fiume Liri, dava modo alle popolazioni provenienti dalla Marsica di entrare in questo territorio.
Fu così che molte popolazioni raggiunsero questi territori: i Volsci e gli Ernici dall’Abruzzo, i Sanniti dal Molise o dalla Campania. È inoltre documentata la presenza etrusca nella zona del cassinate (Cassino, San Biagio Saracinisco) ma anche ad Anagni, passando poi per Palestrina, fino a Roma. I materiali ritrovati documenterebbero però solo i commerci ed i legami tra le città di Veio o di Caere con le zone del basso Lazio, considerato come un corridoio di passaggio verso le città etrusche della Campania (per esempio Pontecagnano). I Volsci, gli Ernici ed i Sanniti occuparono nella maggior parte dei casi dei siti d’altura, creando così un sistema di controllo molto efficace sulle valli del Sacco (si pensi ad Anagni, Ferentino, Artena), del Liri (Sora o la mitica Fregellae volsca) e del Melfa o su punti di passaggio importanti (Vicalvi, Atina, etc.).
GLI ERNICI
Questa antica popolazione italica si stanziò nella regione montuosa limitata a sud dalla valle del Sacco e ad est da quella del Liri intorno al VII secolo a.C. Secondo Festo e Servio, nel suo commento all’Eneide il termine herna è la traduzione marsa del termine latino saxa (=rupi) con cui si descriveva il territorio occupato da queste popolazioni. Gli Ernici erano distribuiti in piccoli insediamenti i cui centri più importanti erano Anagni, Ferentino, Alatri e Veroli, ma anche Affile ed il Capitulum Hernicorum, quest’ultimo dovrebbe corrispondere, secondo una ipotesi ottocentesca, a Piglio. Benché divisa i vari centri, la popolazione era riunita in un sistema federale che teneva i propri concilia nell’area che Dionigi di Alicarnasso e Livio definirono Circus Maritimus, di cui sembra riconoscere alcune tracce nei pressi della località di Osteria della fontana ad Anagni.
Le origini di queste genti sono da ricondurre, secondo alcuni studiosi, ad un ceppo osco-sannita. Gli Ernici entrarono in rapporto con Roma già dall’età regia. Festo, tramandatoci da Varrone, narra che gli Ernici appoggiarono il re Tullio Ostilio intorno alla fine del VII secolo a.C. durante la guerra che Roma condusse contro Veio. Successivamente, durante una delle battaglie contro gli Albani, un anagnino, Levius Cispus, difese il colle che da lui prese il nome. Questa popolazione ebbe un legame particolarmente forte soprattutto con i re etruschi, così, al momento della cacciata di Tarquinio il Superbo nel 508 a.C., quest’ultimo si rivolse proprio agli Ernici per recuperare il trono perduto. Tra le due popolazioni tornarono così le ostilità. Livio riporta che nel 483 a.C. fu stipulato un trattato di alleanza finalizzato a limitare l’avanzata di Equi e di Volsci nel Lazio meridionale. Tuttavia questo patto cominciò a vacillare mano a mano che Roma conquistava nuovi territori.
L’episodio che decise la fine delle ostilità fu l’appoggio che gli Ernici offrirono ai Sanniti alla fine del IV secolo a.C. Durante un incontro del concilio federale nel Circus Maritimus durante il quale si doveva decidere se dichiarare o meno guerra ai Romani, la lega ernica si trovò divisa e solo le città di Ferentino, Alatri e Veroli non furono favorevoli. Questa situazione indebolì notevolmente la lega ernica che fu definitivamente sconfitta dai Romani nel 306 a.C. In seguito a questo episodio i Romani decretarono che le tre città di Ferentino, Alatri e Veroli, avrebbero mantenuto leggi proprie ed una certa autonomia nell’amministrazione, mentre Anagni e le altre città che avevano appoggiato la guerra furono trasformate in municipii sine suffragio, con limitazioni molto pesanti nell’amministrazione della res publica.
I monumenti ernici
I monumenti ernici che hanno resistito nel corso del tempo sono molto pochi e fino a pochi decenni fa erano limitati alle acropoli delle maggiori città: Anagni, Alatri, Ferentino e Veroli. Costruite con pietra locale, arenaria per Anagni e calcare per le altre, queste strutture fortificano le zone più alte dei centri storici. In area ernica uno dei più grossi centri è Alatri con una struttura poligonale molto ben conservata.
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Alatri: acropoli |
Ad eccezione del tempio di tipo italico rinvenuto in territorio alatrense, di cui oggi il museo conserva una piccola riproduzione, non si sono preservati altri edifici di culto. Tuttavia sono state rinvenute tracce di luoghi di culto in territorio anagnino, nelle località di Santa Cecilia e di Osteria della Fontana.
Per quanto riguarda il primo non abbiamo una delimitazione precisa dell’area, la quale è rintracciabile poco fuori la cinta muraria della città. Le indagini condotte hanno portato alla luce tracce di strutture databili tra il VII secolo a.C. ed l’inizio del V secolo a.C. e fosse a carattere votivo con materiale che va dagli inizi del VII secolo a.C. alla fine del V secolo a.C.
La località di Osteria della Fontana è nota per aver restituito nel corso degli anni una serie di industrie litiche riferibili alla fase finale del Paleolitico superiore. Il sito è, tuttavia, noto soprattutto per i recenti scavi condotti dalla Soprintendenza che hanno confermato l’ipotesi di individuare in questa zona il Compitum Anagninum ed il relativo santuario di Diana. Livio, nella descrizione degli avvenimenti del 211 a.C., accenna anche ad un circus quem maritimum vocant (Livio, IX, 42, 11) in cui, in tempi più antichi, la confederazione ernica si riuniva per prendere le decisioni comuni. Il nome di Circus Maritimum, secondo una delle ipotesi, sembra derivare dalla dea Mares, una divinità indigena assimilata o legata a Diana. I materiali ritrovati documentano particolarmente due fasi di frequentazione del santuario: il livello più antico, individuato in due fosse votive presenta una serie di materiali di VII-VI secolo a.C., costituiti da piccole fibule, vasetti miniaturistici, figurine umane in lamina di bronzo, ossi lavorati. Su questo strato poggiava una seconda fase di frequentazione in cui sono stati recuperati materiali dei secoli IV-II a.C. in particolare tegole, coppi, ceramica a vernice nera, argilla depurata e di impasto, parti di panneggi di statue in terracotta e una testa votiva fittile databile al IV sec. a.C. ed altri reperti databili al III/II secolo a.C.
La lingua ernica
Fino alla fine degli anni ’70 le uniche glosse conosciute della lingua ernica erano buttuti, samentum e herna. Le prime due parole sono state tramandate grazie alle lettere di Marco Aurelio al suo maestro e amico Frontone, mentre l’ultima è una supposizione per cui il nome degli Ernici sarebbe derivato dal marso herna, che indicherebbe le zone rocciose su cui vivevano queste popolazioni. A queste tre si potevano aggiungere anche alcuni nomi propri. Dal 1978 è noto un frammento fittile, pertinente forse al collo di un vaso, che riporta una iscrizione di incerta lettura e identificazione: ekm[a] / ekn[a] oppure rekm[a] / rekn[a]. È difficile dire se il tipo dell’alfabeto sia da identificare con l’etrusco oppure con il latino arcaico. Nel primo caso si tratterebbe forse di un’iscrizione pertinente ad una decima, databile al VII secolo a.C.
Dal santuario di S. Cecilia (Anagni) provengono alcune iscrizioni che rimandano ad ambito ernico, incise su due vasi prima della cottura. Su una piccola olla di bucchero grigio, di fattura locale, si rinviene una sequenza di 24 segni tracciati a crudo:
ni hvidas ni kait [-c.21-23-]matas udnom.
Secondo Giovanni Colonna potrebbe essere riferibile al dono o alla dedica di qualcosa forse ad una divinità. Tuttavia manca l’indicazione del dedicante e/o della divinità a cui è dedicato.
Sulla vasca esterna di una coppetta miniaturistica proveniente da una fossa repubblicana è riportata un’iscrizione dipinta:
G. Titieus esu. Si tratta in questo caso di una forma dialettale di un nome ernico oramai latinizzato.
I VOLSCI
I Volsci, appartenenti ad uno dei ceppi osci od umbro-sabellici, scesero attraverso l’Appennino interno fino alla media Valle del Liri. Gli storici hanno individuato il territorio di origine nell’area a nord della piano del Fucino, che in seguito verrà occupata dai Marsi e dagli Equi.
Probabilmente nel corso del VII secolo a.C. questa popolazione si mosse lungo l’alta Valle del Liri ed invase la media vallata di questo fiume, stabilendosi in una zona tra gli Ernici e gli Ausoni.
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Arpino: arco a sesto acuto |
Inizialmente l’area, interessata da questa presenza, comprendeva le città di Sora, Arpino, Fregellae, Aquino, Cassino e Frosinone. Solo recenti scoperte hanno permesso di inserire anche Atina tra i territori occupati da questa popolazione. Livio ci conferma che anche Ferentino fu, per un breve periodo, occupata dai Volsci fino al 468 a.C. quando fu riconquistata dai Romani.
In un periodo successivo dal frusinate i Volsci superarono i Monti Lepini ed Ausoni, spingendosi fino verso la valle dell’Amaseno nella piana di Priverno e da qui avrebbero invaso il territorio pontino che da epoche molto antiche era di popolazioni latine.
Ben presto raggiunsero il versante meridionale dei Colli Albani, occupando Velletri ed Anzio. L’occupazione di questo ampio territorio è avvenuta molto lentamente attraverso gli spostamenti di popolazioni in seguito alla transumanza. Secondo gli studiosi piccoli gruppi occasionali devono aver preceduto in un lungo periodo, migrazioni che si sono fatte sempre più consistenti.
I siti dei Volsci
I ritrovamenti di materiali volsci sono estremamente rari ed il rinvenimento di intere necropoli risulta un fatto eccezionale nel territorio ciociaro.
Di particolare importanza è il recente ritrovamento in via De Matthaeis a Frosinone, di una necropoli volsca con un numero notevole di reperti destinati ad una migliore conoscenza di questa popolazione.
L’area annovera, al momento, circa 21 tombe, di cui due destinate a bambini, databili tra il VI ed il V secolo a.C. le sepolture erano accompagnate da corredi costituiti da vasi, brocche e vari oggetti in bronzo per un totale di circa duecento oggetti recuperati. Il sito, già noto alla Soprintendenza durante la costruzione del grattacielo per alcuni sporadici ritrovamenti, è affiancato per importanza da un altro di sicuro interesse per l’archeologia del frusinate.
In altre zone del Lazio rimangono pochi resti degli insediamenti volsci: un caso è costituito dalla Civita di Artena che occupa la sommità del monte calcareo, sopra il paese di Artena, ad un’altezza di 632 metri s.l.m. Da qui si poteva controllare l’imbocco alla valle del Sacco e l’intera valle Ariana che da Palestrina e Paliano portava al mare verso Anzio. Del centro, che ebbe una notevole importanza strategica, si riconoscono ancora la cinta muraria e le strutture di terrazzamento destinate all’abitato interno. Le rovine attuali sono, tuttavia, riferibili all’intervento di pianificazione urbanistica operata dai Romani tra la fine del IV secolo a.C. e gli inizi del III secolo a.C. L’abitato volsco doveva esistere già dalla metà del VII secolo a.C.; recenti scavi hanno, infatti, messo in luce dei caseggiati di IV secolo a.C. risalenti al periodo precedente la conquista romana. Malgrado l’enorme importanza strategica non si conosce il nome di questa città: recentemente si è pensato di identificarvi l’antica Ecetra che ebbe un ruolo preminente nelle guerre contro Roma per tutto il V secolo a.C. ed in particolare nel 378 a.C.
Documenti della lingua volsca
I Volsci, anche se occuparono un vasto territorio ed assimilarono diverse popolazioni, dovettero avere una unica lingua. Dai pochi documenti rimastici e dal confronto con quelli di altre popolazioni sembra che il volsco sia un dialetto sabellico che ha molte affinità con l’umbro, con l’equo e con il marso. Di fondamentale importanza per la sua conoscenza sono: la Tabula Veliterna e l’accetta di Satricum.
La cosiddetta Tabula Veliterna fu rinvenuta a Velletri nel 1784, probabilmente presso la chiesa di S. Maria della Neve. Si tratta di una tavoletta, databile intorno al 300 a.C., in cui il testo iscritto utilizza un alfabeto latino. Il testo è il seguente:
deue: declune: statom:
sepis: atahus: pis: uelestom:façia:
esaristrom: se:
bim: asif: uesclis: uinu: arpatitu:
sepis: toticu: couehriu: sepus: ferom
pihom: estu:
ec: se: cosuties: ma: ca: tafanies: medix:
sistiantes.
Secondo il Rix nell’iscrizione sono identificabili due nuclei: il primo giuridico con il richiamo alla dea Declona; il secondo contiene il richiamo a due meddices, ossia dei magistrati locali, Egnatus Cosutius, figlio di Seppius e Marcus Tufanius, figlio di Gavius, i quali misero in atto una qualche azione amministrativa.
Su queste basi, essa può essere inserita tra i documenti che contengono testi sacri ed il confronto con un altro documento proveniente da Spoleto, in cui si fa riferimento ad un bosco, ha portato a supporre per la tavola veliterna il medesimo argomento. Gli studiosi hanno così proposto la seguente traduzione: «(Questo è) stabilito per la Dea Declona: se qualcuno farà uno strappamento (di fogliame e di legno) avrà preso a sé (lo strappamento), (che) sia un sacrificio o (che) sarà una violazione (o contaminazione). (Il colpevole) metta a disposizione un bue ed un asse per i vasi (colla polte) e (un altro) per il vino. Se (lo prenderà) con approvazione dell’assemblea comunale, l’asportare sia senza contaminazione. Egnatius Cossutius, figlio di Seppis e Marcus Tafanius, figlio di Gaius, Meddices l’hanno approvato». L’iscrizione detterebbe le norme per la conservazione di un bosco sacro, contro coloro che intendevano tagliare il fogliame o il legno dello stesso.
Il secondo testo, fondamentale per lo studio del volsco, è iscritto su una accetta di piombo, di piccole dimensioni, scoperta nel 1983 a Satricum, negli scavi della necropoli del V secolo a.C. Per la paleografia e i segni d’interpunzione l’alfabeto si identifica come un alfabeto “sabino arcaico”.
Il testo, di difficile lettura, è stato interpretato ad lucum Aedii. Si tratterebbe di un’iscrizione riferita ad un bosco sacro (lucum), ipotesi avvalorata anche per la tipologia dell’oggetto. Il testo risulta essere estremamente importante perché dimostrerebbe che i Volsci non avevano imparato a scrivere dai Latini, ma avevano un loro sistema di scrittura.