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Storia

Le Ciocie

Le Ciocie
Ciociaria, il nome di questa terra senza limiti geografici ben definiti è strettamente legato alle calzature laziali dette “ciocie”, un chiaro esempio dell'antichità dell'artigianato locale. Tradizionale calzare usato dai pastori è stato forse il primissimo prodotto dell'artigianato ciociaro. Primissimo e, oggi, simbolico. Arpino è il paese che ancora oggi le produce artigianalmente, motivato dal "Gonfalone” che ogni anno, in agosto, le vuole calzate per la sfilata in costume ciociaro.
"E’ lì che il popolo porta le “ciocie”, una semplicissima calzatura che ha dato al paese il suo nome. Da Anagni in giù vidi in uso questi speciali sandali, non si poteva ideare un sistema più primitivo e al tempo stesso più comodo, almeno io l’ho invidiato sinceramente ai ciociari: la ciocia si fabbrica con un pezzo quadrato di pelle di asino o di cavallo, nei buchi viene infilato uno spago che avvolge il piede in modo che il sandalo si assottiglia verso la punta e termina con una curva; la gamba viene avvolta fino al ginocchio con tela grigia e ruvida, legata con molti spaghi di corda o di filo, così il ciociaro si muove liberamente nel campo ove la terra o sulle rocce badando alle pecore e alle capre, avvolto in un mantello o giacca di pelo grigia e corta, sempre con la sua zampogna".  (Gregorovius e le Ciocie)
Le ciocie erano il calzare tipico del Basso Lazio, diffuso anche in molte regioni dell'Italia centrale e meridionale che, fin dal Settecento, diedero il nome ad una parte del suo territorio (Ciociaria) e ai suoi abitanti.

La loro origine è controversa e una colta tradizione, basata su un passo dell'Eneide, le riporta al popolo degli Ernici i cui centri maggiori furono Ferentino, Anagni, Alatri, Veroli e Frosinone.


Negli ultimi secoli sono state per eccellenza le calzature autocostruite più economiche; realizzabili con pelli bovine, ovine, suine, bufaline ed asinine, naturali o conciate, erano robuste e adatte per camminare su campi lavorati e su percorsi impervi, nonché resistenti a lavori usuranti, come la vangatura. Nella loro costruzione erano impiegate lesine o coltelli per il taglio del cuoio - che, non di rado, manteneva il caratteristico pelame - e la sgorbia (scalpello a lama per praticare fori pressochè rettangolari o ovali, uguali tra loro, per il passaggio delle stringhe).

Il calzare era dotato di un plantare di cuoio curvato a forma quasi di barchetta, in alcuni casi con una punta, più o meno accartocciata ed inarcata, legato da lunghe stringhe, anch'esse di cuoio ma flessibili, avvolgenti il polpaccio fino al ginocchio, con all'estremità due spaghi per un'agevole annodatura. In antico, al posto delle stringhe, si usavano spaghi, cordicelle o fettucce. Sotto il plantare erano inseriti, con chiodi o grappe artigianali, due rinforzi (taccuni) di cuoio sui quali si applicavano le bollette, chiodi molto corti e dalla testa ampia e bombata con funzione antiusura e antisdrucciolo. Dopo la seconda guerra mondiale il cuoio e' stato sostituito da pezzi di copertone e di camera d'aria di pneumatici.

Corredavano le ciocie i calzettoni di lana, utili contro il freddo e il morso delle vipere, ricoperti da panni di canapa o di lino; i pastori, per difendere le gambe dai rovi e dall'acqua, indossavano il guardamacchia: una pelle di capra dal lungo pelame, posta sopra i calzoni e legata alla cintura e ai polpacci.

L'uso delle ciocie, noto anche in tutto il Regno delle Due Sicilie, nelle Marche, in Toscana e in Umbria, è durato nell'Italia centrale fino agli anni '60 del XX sec.; ancora oggi, al di là delle manifestazioni folcloristiche, è documentata qualche loro presenza, tra i pastori dei Monti Lepini, dei Monti Ausoni e della Valle di Comino.

Fuori dall'Italia alcuni tipi di calzature, riconducibili alle ciocie sono, tuttora, in uso presso alcune popolazioni rurali decentrate dell'Albania, della Grecia, della Romania e della Russia.

Testo tratto da: museogentediciociaria.it

 

Le Ciocie

 

 

 

 
 

 

Le antiche popolazioni della Ciociaria

La provincia di Frosinone occupa una parte di quello che nell’antichità era definito Latium adiectum e che, pressapoco, occupava la regione da Palestrina (l’antica Praeneste), che faceva ancora parte del Latium vetus, fino al Garigliano.
La storia del Lazio meridionale è sempre stata legata, più o meno in maniera evidente, a quella di Roma (si pensi per esempio alla conquista romana di questa zona, oppure, in periodo medievale, alla presenza del papato ed alle continue lotte tra le nobili famiglie del territorio), ma prima dei Romani questo territorio fu occupato da una grande varietà di popolazioni.

Alla preistoria risalgono resti che documentano la presenza umana nella zona: è noto, infatti, il ritrovamento a Pofi, in località Campogrande, del fossile umano più antico in Italia e tra i più antichi d’Europa. Si tratta del cranio di un maschio adulto, familiarmente chiamato Argyl, l’uomo di Ceprano, e datato tra 900.000 e 800.000 anni fa.
Da Anagni provengono una serie di manufatti in selce ed in pietra lavica che risalgono al paleolitico Inferiore. Si tratta di una delle industrie litiche più antiche d’Italia e che, assieme ad alcuni resti umani, dovrebbero essere pertinenti ad un Homo Erectus Pekinensis.

La Valle del Sacco ha costituito anche in tempi recenti una fonte di scoperte eccezionali: la presenza di una risorsa molto importante quale era il fiume, la vicinanza con i Monti Lepini e la zona che costituiva un passaggio importante con direttrice nord-sud, determinarono la scelta del sito di Casale del Dolce (Anagni), dove, durante i lavori di costruzione della TAV, sono state rinvenute delle strutture insediative, tra cui una capanna, ed una necropoli, con tombe a grotticella, datati tra la prima metà del V ed il III millennio a.C.
Pochi sanno, però, che la storia della Ciociaria va molto più indietro nel tempo e, proprio le recenti scoperte archeologiche, hanno permesso una rivalutazione di questa terra, che non ebbe solo un ruolo marginale in funzione di Roma.

Atina: guerriero sannita   

 Atina: guerriero sannita

 Sono, infatti, molto importanti le scoperte effettuate lungo il bacino del fiume Sacco, in particolare presso Ceprano ed Anagni, le quali documentano alcune delle più antiche presenze umane in Italia. Tuttavia, resti preistorici sono distribuiti in maniera sparsa in tutta la Ciociaria, specialmente lungo i percorsi fluviali (Sora, lungo il Liri), o in zone ricche d’acqua (Arce).

Le prime testimonianze storiche delle popolazioni che s’insediarono all’interno del Lazio meridionale, in particolare della Ciociaria, risalgono purtroppo ad un periodo di molto successivo alla conquista romana della zona ed offrono un quadro molto limitato di quello che doveva essere questo territorio tra l’VIII ed il IV secolo a.C.
Dalle descrizioni fatte dagli storici romani si deduce che l’attuale Ciociaria in quel periodo era occupato da un vasto mosaico di popoli, i quali sfruttarono al meglio le risorse che questo territorio offriva (agricoltura, pastorizia, minerali, legnami, etc.). La stessa conformazione della zona consentiva il controllo della stessa e, contemporaneamente, facilitava i commerci con il nord del Lazio e la Campania. Le valli segnate dai fiumi Sacco e Liri costituirono, infatti, dei corridoi naturali, attraverso cui molte popolazioni si mossero. La valle del Sacco, in particolare, metteva in comunicazione il sud Italia con la campagna romana e da qui verso l’Etruria; mentre la piana tagliata dal fiume Liri, dava modo alle popolazioni provenienti dalla Marsica di entrare in questo territorio.

Fu così che molte popolazioni raggiunsero questi territori: i Volsci e gli Ernici dall’Abruzzo, i Sanniti dal Molise o dalla Campania. È inoltre documentata la presenza etrusca nella zona del cassinate (Cassino, San Biagio Saracinisco) ma anche ad Anagni, passando poi per Palestrina, fino a Roma. I materiali ritrovati documenterebbero però solo i commerci ed i legami tra le città di Veio o di Caere con le zone del basso Lazio, considerato come un corridoio di passaggio verso le città etrusche della Campania (per esempio Pontecagnano). I Volsci, gli Ernici ed i Sanniti occuparono nella maggior parte dei casi dei siti d’altura, creando così un sistema di controllo molto efficace sulle valli del Sacco (si pensi ad Anagni, Ferentino, Artena), del Liri (Sora o la mitica Fregellae volsca) e del Melfa o su punti di passaggio importanti (Vicalvi, Atina, etc.). 

 GLI ERNICI

Questa antica popolazione italica si stanziò nella regione montuosa limitata a sud dalla valle del Sacco e ad est da quella del Liri intorno al VII secolo a.C. Secondo Festo e Servio, nel suo commento all’Eneide il termine herna è la traduzione marsa del termine latino saxa (=rupi) con cui si descriveva il territorio occupato da queste popolazioni. Gli Ernici erano distribuiti in piccoli insediamenti i cui centri più importanti erano Anagni, Ferentino, Alatri e Veroli, ma anche Affile ed il Capitulum Hernicorum, quest’ultimo dovrebbe corrispondere, secondo una ipotesi ottocentesca, a Piglio. Benché divisa i vari centri, la popolazione era riunita in un sistema federale che teneva i propri concilia nell’area che Dionigi di Alicarnasso e Livio definirono Circus Maritimus, di cui sembra riconoscere alcune tracce nei pressi della località di Osteria della fontana ad Anagni.

Le origini di queste genti sono da ricondurre, secondo alcuni studiosi, ad un ceppo osco-sannita. Gli Ernici entrarono in rapporto con Roma già dall’età regia. Festo, tramandatoci da Varrone, narra che gli Ernici appoggiarono il re Tullio Ostilio intorno alla fine del VII secolo a.C. durante la guerra che Roma condusse contro Veio. Successivamente, durante una delle battaglie contro gli Albani, un anagnino, Levius Cispus, difese il colle che da lui prese il nome. Questa popolazione ebbe un legame particolarmente forte soprattutto con i re etruschi, così, al momento della cacciata di Tarquinio il Superbo nel 508 a.C., quest’ultimo si rivolse proprio agli Ernici per recuperare il trono perduto. Tra le due popolazioni tornarono così le ostilità. Livio riporta che nel 483 a.C. fu stipulato un trattato di alleanza finalizzato a limitare l’avanzata di Equi e di Volsci nel Lazio meridionale. Tuttavia questo patto cominciò a vacillare mano a mano che Roma conquistava nuovi territori.
L’episodio che decise la fine delle ostilità fu l’appoggio che gli Ernici offrirono ai Sanniti alla fine del IV secolo a.C. Durante un incontro del concilio federale nel Circus Maritimus durante il quale si doveva decidere se dichiarare o meno guerra ai Romani, la lega ernica si trovò divisa e solo le città di Ferentino, Alatri e Veroli non furono favorevoli. Questa situazione indebolì notevolmente la lega ernica che fu definitivamente sconfitta dai Romani nel 306 a.C. In seguito a questo episodio  i Romani decretarono che le tre città di Ferentino, Alatri e Veroli, avrebbero mantenuto leggi proprie ed una certa autonomia nell’amministrazione, mentre Anagni e le altre città che avevano appoggiato la guerra furono trasformate in municipii sine suffragio, con limitazioni molto pesanti nell’amministrazione della res publica.

I monumenti ernici
I monumenti ernici che hanno resistito nel corso del tempo sono molto pochi e fino a pochi decenni fa erano limitati alle acropoli delle maggiori città: Anagni, Alatri, Ferentino e Veroli. Costruite con pietra locale, arenaria per Anagni e calcare per le altre, queste strutture fortificano le zone più alte dei centri storici. In area ernica uno dei più grossi centri è Alatri con una struttura poligonale molto ben conservata.

  

 Alatri: acropoli

Ad eccezione del tempio di tipo italico rinvenuto in territorio alatrense, di cui oggi il museo conserva una piccola riproduzione, non si sono preservati altri edifici di culto. Tuttavia sono state rinvenute tracce di luoghi di culto in territorio anagnino, nelle località di Santa Cecilia e di Osteria della Fontana.
Per quanto riguarda il primo non abbiamo una delimitazione precisa dell’area, la quale è rintracciabile poco fuori la cinta muraria della città. Le indagini condotte hanno portato alla luce tracce di strutture databili tra il VII secolo a.C. ed l’inizio del V secolo a.C. e fosse a carattere votivo con materiale che va dagli inizi del VII secolo a.C. alla fine del V secolo a.C.
La località di Osteria della Fontana è nota per aver restituito nel corso degli anni una serie di industrie litiche riferibili alla fase finale del Paleolitico superiore. Il sito è, tuttavia, noto soprattutto per i recenti scavi condotti dalla Soprintendenza che hanno confermato l’ipotesi di individuare in questa zona il Compitum Anagninum ed il relativo santuario di Diana. Livio, nella descrizione degli avvenimenti del 211 a.C., accenna anche ad un circus quem maritimum vocant (Livio, IX, 42, 11) in cui, in tempi più antichi, la confederazione ernica si riuniva per prendere le decisioni comuni. Il nome di Circus Maritimum, secondo una delle ipotesi, sembra derivare dalla dea Mares, una divinità indigena assimilata o legata a Diana. I materiali ritrovati documentano particolarmente due fasi di frequentazione del santuario: il livello più antico, individuato in due fosse votive presenta una serie di materiali di VII-VI secolo a.C., costituiti da piccole fibule, vasetti miniaturistici, figurine umane in lamina di bronzo, ossi lavorati. Su questo strato poggiava una seconda fase di frequentazione in cui sono stati recuperati materiali dei secoli IV-II a.C. in particolare tegole, coppi, ceramica a vernice nera, argilla depurata e di impasto, parti di panneggi di statue in terracotta e una testa votiva fittile databile al IV sec. a.C. ed altri reperti databili al III/II secolo a.C.

La lingua ernica
Fino alla fine degli anni ’70 le uniche glosse conosciute della lingua ernica erano buttuti, samentum e herna. Le prime due parole sono state tramandate grazie alle lettere di Marco Aurelio al suo maestro e amico Frontone, mentre l’ultima è una supposizione per cui il nome degli Ernici sarebbe derivato dal marso herna, che indicherebbe le zone rocciose su cui vivevano queste popolazioni. A queste tre si potevano aggiungere anche alcuni nomi propri. Dal 1978 è noto un frammento fittile, pertinente forse al collo di un vaso, che riporta una iscrizione di incerta lettura e identificazione: ekm[a] / ekn[a] oppure rekm[a] / rekn[a]. È difficile dire se il tipo dell’alfabeto sia da identificare con l’etrusco oppure con il latino arcaico. Nel primo caso si tratterebbe forse di un’iscrizione pertinente ad una decima, databile al VII secolo a.C.
Dal santuario di S. Cecilia (Anagni) provengono alcune iscrizioni che rimandano ad ambito ernico, incise su due vasi prima della cottura. Su una piccola olla di bucchero grigio, di fattura locale, si rinviene una sequenza di 24 segni tracciati a crudo:
ni hvidas ni kait [-c.21-23-]matas udnom.
Secondo Giovanni Colonna potrebbe essere riferibile al dono o alla dedica di qualcosa forse ad una divinità. Tuttavia manca l’indicazione del dedicante e/o della divinità a cui è dedicato.
Sulla vasca esterna di una coppetta miniaturistica proveniente da una fossa repubblicana è riportata un’iscrizione dipinta:
G. Titieus esu. Si tratta in questo caso di una forma dialettale di un nome ernico oramai latinizzato.

 

I VOLSCI

I Volsci, appartenenti ad uno dei ceppi osci od umbro-sabellici, scesero attraverso l’Appennino interno fino alla media Valle del Liri. Gli storici hanno individuato il territorio di origine nell’area a nord della piano del Fucino, che in seguito verrà occupata dai Marsi e dagli Equi.
Probabilmente nel corso del VII secolo a.C. questa popolazione si mosse lungo l’alta Valle del Liri ed invase la media vallata di questo fiume, stabilendosi in una zona tra gli Ernici e gli Ausoni.

  

 Arpino: arco a sesto acuto

Inizialmente l’area, interessata da questa presenza, comprendeva le città di Sora, Arpino, Fregellae, Aquino, Cassino e Frosinone. Solo recenti scoperte hanno permesso di inserire anche Atina tra i territori occupati da questa popolazione. Livio ci conferma che anche Ferentino fu, per un breve periodo, occupata dai Volsci fino al 468 a.C. quando fu riconquistata dai Romani.
In un periodo successivo dal frusinate i Volsci superarono i Monti Lepini ed Ausoni, spingendosi fino verso la valle dell’Amaseno nella piana di Priverno e da qui avrebbero invaso il territorio pontino che da epoche molto antiche era di popolazioni latine.
Ben presto raggiunsero il versante meridionale dei Colli Albani, occupando Velletri ed Anzio. L’occupazione di questo ampio territorio è avvenuta molto lentamente attraverso gli spostamenti di popolazioni in seguito alla transumanza. Secondo gli studiosi piccoli gruppi occasionali devono aver preceduto in un lungo periodo, migrazioni che si sono fatte sempre più consistenti.

I siti dei Volsci
I ritrovamenti di materiali volsci sono estremamente rari ed il rinvenimento di intere necropoli risulta un fatto eccezionale nel territorio ciociaro.
Di particolare importanza è il recente ritrovamento in via De Matthaeis a Frosinone, di una necropoli volsca con un numero notevole di reperti destinati ad una migliore conoscenza di questa popolazione.
L’area annovera, al momento, circa 21 tombe, di cui due destinate a bambini, databili tra il VI ed il V secolo a.C. le sepolture erano accompagnate da corredi costituiti da vasi, brocche e vari oggetti in bronzo per un totale di circa duecento oggetti recuperati. Il sito, già noto alla Soprintendenza durante la costruzione del grattacielo per alcuni sporadici ritrovamenti, è affiancato per importanza da un altro di sicuro interesse per l’archeologia del frusinate.
In altre zone del Lazio rimangono pochi resti degli insediamenti volsci: un caso è costituito dalla Civita di Artena che occupa la sommità del monte calcareo, sopra il paese di Artena, ad un’altezza di 632 metri s.l.m. Da qui si poteva controllare l’imbocco alla valle del Sacco e l’intera valle Ariana che da Palestrina e Paliano portava al mare verso Anzio. Del centro, che ebbe una notevole importanza strategica, si riconoscono ancora la cinta muraria e le strutture di terrazzamento destinate all’abitato interno. Le rovine attuali sono, tuttavia, riferibili all’intervento di pianificazione urbanistica operata dai Romani tra la fine del IV secolo a.C. e gli inizi del III secolo a.C. L’abitato volsco doveva esistere già dalla metà del VII secolo a.C.; recenti scavi hanno, infatti, messo in luce dei caseggiati di IV secolo a.C. risalenti al periodo precedente la conquista romana. Malgrado l’enorme importanza strategica non si conosce il nome di questa città: recentemente si è pensato di identificarvi l’antica Ecetra che ebbe un ruolo preminente nelle guerre contro Roma per tutto il V secolo a.C. ed in particolare nel 378 a.C.

Documenti della lingua volsca
I Volsci, anche se occuparono un vasto territorio ed assimilarono diverse popolazioni, dovettero avere una unica lingua. Dai pochi documenti rimastici e dal confronto con quelli di altre popolazioni sembra che il volsco sia un dialetto sabellico che ha molte affinità con  l’umbro, con l’equo e con il marso. Di fondamentale importanza per la sua conoscenza sono: la Tabula Veliterna e l’accetta di Satricum.

La cosiddetta Tabula Veliterna fu rinvenuta a Velletri nel 1784, probabilmente presso la chiesa di S. Maria della Neve. Si tratta di una tavoletta, databile intorno al 300 a.C., in cui il testo iscritto utilizza un alfabeto latino. Il testo è il seguente:

                                                                deue: declune: statom:
                                                                sepis: atahus: pis: uelestom:façia:
                                                                        esaristrom: se:
                                                                        bim: asif: uesclis: uinu: arpatitu:
                                                                sepis: toticu: couehriu: sepus: ferom
                                                                        pihom: estu:
                                                                ec: se: cosuties: ma: ca: tafanies: medix:
                                                                sistiantes.


Secondo il Rix nell’iscrizione sono identificabili due nuclei: il primo giuridico con il richiamo alla dea Declona; il secondo contiene il richiamo a due meddices, ossia dei magistrati locali, Egnatus Cosutius, figlio di Seppius e Marcus Tufanius, figlio di Gavius, i quali misero in atto una qualche azione amministrativa.
Su queste basi, essa può essere inserita tra i documenti che contengono testi sacri ed il confronto con un altro documento proveniente da Spoleto, in cui si fa riferimento ad un bosco, ha portato a supporre per la tavola veliterna il medesimo argomento. Gli studiosi hanno così proposto la seguente traduzione: «(Questo è) stabilito per la Dea Declona: se qualcuno farà uno strappamento (di fogliame e di legno) avrà preso a sé (lo strappamento), (che) sia un sacrificio o (che) sarà una violazione (o contaminazione). (Il colpevole) metta a disposizione un bue ed un asse per i vasi (colla polte) e (un altro) per il vino. Se (lo prenderà) con approvazione dell’assemblea comunale, l’asportare sia senza contaminazione. Egnatius Cossutius, figlio di Seppis e Marcus Tafanius, figlio di Gaius, Meddices l’hanno approvato». L’iscrizione detterebbe le norme per la conservazione di un bosco sacro, contro coloro che intendevano tagliare il fogliame o il legno dello stesso.


Il secondo testo, fondamentale per lo studio del volsco, è iscritto su una accetta di piombo, di piccole dimensioni, scoperta nel 1983 a Satricum, negli scavi della necropoli del V secolo a.C. Per la paleografia e i segni d’interpunzione l’alfabeto si identifica come un alfabeto “sabino arcaico”.
Il testo, di difficile lettura, è stato interpretato ad lucum Aedii. Si tratterebbe di un’iscrizione riferita ad un bosco sacro (lucum), ipotesi avvalorata anche per la tipologia dell’oggetto. Il testo risulta essere estremamente importante perché dimostrerebbe che i Volsci non avevano imparato a scrivere dai Latini, ma avevano un loro sistema di scrittura.

Cenni Storici

Situata nel Lazio Meridionale, lo spazio geografico della Ciociaria non può essere circoscritto alla Provincia di Frosinone, ma deve essere esteso alle aree di stanziamento delle popolazioni ausoniche, erniche, volsche e sannite. In seguito alla vittoria di Roma nella seconda guerra punica e conseguente estensione di supremazia su tutta l'Italia centromeridionale, quei luoghi presero il nome di "Latium novum, o adiectum" e lo conservarono fino alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Ai tempi del "Ducatus Romanus" poi il territorio a sud di Roma si estese fino a Sora e Gaeta. La trasformazione geografica e amministrativa si ebbe con l'invasione longobarda, in seguito alla quale la zona dal Garigliano ai Colli Albani prese il nome di Campagna, mentre quella lungo il litorale tirrenico assunse il nome di Marittima. Quando poi il Sacro Romano Impero riconobbe lo Stato Pontificio, quella denominazione divenne ufficiale e si creò la Provincia di Campagna e Marittima con capoluogo Frosinone.

Nel 1836 Gregorio XVI darà autonomia alla zona di Marittima con capoluogo Velletri. A partire dal secolo XVII, intanto, entrava nell'uso letterario-folkloristico, il termine "Ciociaria" (nome derivante da una tipica calzatura di cuoio, la "ciocia", che usavano i pastori e i villici nei lavori dei campi). Lo spazio geografico "Ciociaria" verrà ridotto, idealmente, con l'istituzione della Provincia di Frosinone nel 1927 escludendo così le zone a nord, dalla valle dell' Aniene a Palestrina, Segni, Carpineto, che sono rimaste sotto la giurisdizione della Provincia di Roma, e dalla zona da sud-ovest al mare, che dal 1934 fa parte della Provincia di Latina. Il paesaggio, le testimonianze storiche ed artistiche, le tradizioni ed il folklore, l'indole ospitale degli abitanti fanno della provincia di Frosinone una delle più caratteristiche zone italiane.

Le possenti mura megalitiche o ciclopiche, i resti archeologici soprattutto di epoca romana, i castelli e le fortificazioni medievali, gli impianti urbanistici dei tanti paesi arroccati sulle colline, le chiese, i monumenti sono come tante pagine di un grande libro che racconta le vicende storiche di molti secoli. E città come Alatri, Anagni, Arpino, Atina, Alvito, Boville Ernica, Cassino, Ferentino, S. Elia Fiumerapido, Veroli ed i resti dell'antica città di Fregellae di recente scoperta e destinati ad assumere un gradissimo rilievo, sono le testimonianze visive dell'arte e della cultura che impreziosiscono la provincia.


Fu certamente la presenza del monachesimo benedettino prima e cistercense poi a caratterizzare l'immagine storico artistica e culturale della Ciociaria. Da qui la presenza delle importanti testimonianze architettoniche con le splendide abbazie di Montecassino, Casamari, San Domenico, la Certosa di Trisulti e i vari monasteri femminili. Sebbene sia nata, amministrativamente, soltanto nel 1927, la provincia di Frosinone ha infatti un retroterra storico varie volte millenario. E' la terra degli Ernici, degli Equi, dei Volsci e dei Sanniti. Questi popoli si sovrapposero alle genti primitive e poi, dopo aspre lotte, dovettero cedere alla crescente potenza di Roma, fino ad amalgamarsi con questa. Caduto l'impero romano, Bizantini, Longobardi, Normanni, il Papato e gli Svevi, grandi e piccoli feudatari esercitarono il loro dominio sul territorio che sperimentò anche il passaggio di orde e di eserciti stranieri e fu duramente coinvolto nelle vicende del secondo conflitto mondiale.
 
 

La Ciociaria vista da Antonio Fazio

Antonio FazioLa Ciociaria, terra del rustico calzare discendente del soccus romano, sorta di mocassino adatto a camminare su terreno fangoso, si estende a sud della Campagna romana fino a comprendere parte della Terra di Lavoro: i campi fertili delle valli del Liri e del Garigliano. Nell’antichità queste terre comprendevano il lembo meridionale del Latium vetus e il Latium adiectum.
 
La valle Latina, antica e sicura via di comunicazione tra Roma e Napoli – l’Appia, attraverso le paludi pontine, viene aperta da Appio Claudio il cieco solo alla fine del IV secolo – era fiancheggiata dalle città fortificate di Ardea, Anagni, Alatri, Arpino, Ferentino fino a Veroli e Atina; città fondate secondo la leggenda da Saturno, protette da maestose mura megalitiche, illustrate nella bella monografia di Marianna Dionigi. Più a sud nella valle si trovano Aquinum e Casinum fino a i bordi della Campania felice. Da Atina, potente perché già in età arcaica lavorava il ferro per produrre armi, partirono le schiere che, insieme a quelle venute da Ardea, da Tivoli la superba, da Antenne e da Crustumerio, insorsero contro Enea. Così Virgilio nel Libro VII dell’Eneide.

Gli Ernici, popolo delle pietre, abitavano le montagne; gli Ausoni, popoli delle fonti, vivevano nelle pianure; più a sud erano le terre dei Volsci, gli Osci guerrieri. Gregorovius nel suo viaggio nel basso Lazio, fino a Casamari, Arpino e Sora, ricorda di aver provato sull’Acropoli di Alatri, mentre mirava la valle sottostante e le città turrite sui monti, un’emozione più forte di quella provata sul Colosseo. A Sora ricorda i char-à-banc, gli sciarabà del dialetto locale. La conquista del Mezzogiorno da parte di Roma si arrestò per un secolo e mezzo lungo la riva destra del Liri.
 
Con le battaglie di Cominium e Aquilonia, nel 292, presso Atina nella Valle di Comino, superata definitivamente la resistenza sannitica, poteva riprendere l’espansione verso il Sud. Dalle nostre terre, già da tempo romanizzate, provengono, nel periodo repubblicano, Caio Mario e Lucio Munazio Planco, generale di Giulio Cesare, fondatore di Lione e Basilea. Cicerone, dalla sua villa ai piedi di Arpino scriveva all’amico Attico invitandolo a immergere le mani nelle chiare acque del Fibreno, ancor oggi limpide e fredde. Il cristianesimo penetra nella nostra terra fin dai primi secoli. Molte tradizioni tendono a collegare l’origine di diverse diocesi del sud del Lazio con i tempi apostolici.

Dopo la caduta dell’Impero e le devastazioni barbariche, l’abbandono dei campi e l’inselvatichimento della campagna, con l’arrivo di Benedetto si riaccende, nel VI secolo, la civiltà sul Monte Cassino.
 
L’ondata devastatrice dei Longobardi getta ancora nella desolazione le valli e le terre della pianura. Le sparute popolazioni si rifugiano nelle antiche città sui monti. I figli di Benedetto tornano a ricostruire l’Abbazia già nel VII secolo; riprendono gli studi, riannodano i legami con la cultura classica, inventano nuove forme di scrittura, tornano a coltivare i campi della pianura attraverso la colonia e la mezzadria.
 
A partire dal IX secolo l’Abbazia è punto di incontro e di fusione tra i Franchi e i Longobardi. Fiorisce l’economia curtense, le antiche città lentamente si ripopolano. Nel XI secolo Monte Cassino è al culmine della sua potenza; l’altra grande fondazione benedettina legata ai Longobardi, San Vincenzo alle sorgenti del Volturno, dopo la distruzione dei Saraceni nell’ottobre dell’882, non riuscirà più a tornare all’antico splendore. (…)
 
Tratto da “Veroli – Thesaurus Ecclesie Est Hic” Edizioni Casamari, 2000
 
 
 
 

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