Giovan Battista Maccari

Chi era: Poeta Nato aFrosinone il 19 ottobre 1832 da Antonio Maccari ed Eleonora Bracaglia

Fu il primo di sei figli che nacquero tutti nell’arco di circa dieci anni: Leopoldo, Giuseppe, Teresa, Luigi, Sisto. Il padre Antonio proveniva dalla Liguria e precisamente da San Biagio, diocesi di Ventimiglia, ma in famiglia si conservava tenace il ricordo di una loro ascendenza greca: sarebbero fuggiti da Costantinopoli in seguito alla presa della città nel 1453 ad opera dei turchi. Del resto il cognome Maccari accusa un’origine greca macarios o macaros che significa “beato”. La famigliola viveva a Frosinone in una casetta nei pressi di Porta Campagiorni con i proventi del lavoro di Antonio. Infatti questi aveva il modesto ufficio nella Delegazione Apostolica (Prefettura) di Frosinone, di commesso contabile presso la segreteria generale. L’unico episodio significativo dal punto di vista politico è quello relativo al giuramento di fedeltà in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana il 9 febbraio 1849.

Votarono a favore della proclamazione della repubblica tutti i deputati frusinati: Filippo Turriziani, Luigi Salvatori, Carlo Kambo, Giampietro Guglielmi e il verolano Domenico Napoleone Diamanti. Fu inviato a Frosinone come presidente per il governo della città e della provincia Carlo Meyr, il quale in base alla circolare del ministro dell’interno Saffi richiese il giuramento di fedeltà alla Repubblica a tutti i dipendenti della ex Delegazione Apostolica. Tutti quelli presenti a Frosinone giurarono il 24 febbraio 1849; nell’elenco dei nomi c’è quello di Antonio Francesco Maccari. Gli altri giurarono successivamente il 25 febbraio e il 6 marzo. Il padre che aveva grandi progetti per il figlio primogenito Giovanni Battista lo mandò a studiare ad Alatri presso il collegio dei Padri Scolopi ove ebbe come primo maestro lo scolopio p. Taggiasco. Fin dai primi mesi del suo soggiorno in collegio mostrò passione e attitudine per le lettere e per la poesia, sicché spesso imparava a memoria e recitava per i sui compagni passi di poesia dei nostri grandi della letteratura.

Il padre confortato dai buoni risultati del figlio negli studi, nel 1847 lo mandò a Roma all’università per studiare legge. In quel periodo era professore di letteratura italiana il sacerdote Luigi Rezzi, il quale poneva alla base del suo magistero l’amore e lo studio dei classici al posto del vacuo stile settecentesco diffuso dalle varie accademie. Il Maccari, affascinato dalle lettere, interruppe gli studi di legge, ai quali il padre lo aveva indirizzato e frequentò le lezioni del Rezzi che sapeva istillare nei giovani l’amore per la letteratura e per la poesia. Negli anni 1848-49 in seguito ai moti rivoluzionari, alla fuga di Pio IX a Gaeta e alla proclamazione della Repubblica Romana l’attività accademica fu interrotta. Restaurato lo Stato pontificio e ritornata alla normalità l’attività didattica, il Maccari riprese gli studi di legge fino al 1853. Purtroppo nel 1850 gli era morto il padre che dovette sostituire come capofamiglia. Ma il Nostro non brillava nel foro a causa anche del suo carattere calmo e tranquillo. Chiamò presso di sé da Frosinone a Roma prima il fratello Leopoldo, poi Giuseppe. Si dedicarono tutti allo studio delle lettere frequentando le pubbliche accademie, per conquistarsi la stima del pubblico e l’amore di pochi appassionati di poesia. Nel 1850 il Maccari conobbe ed entrò in amicizia con Augusto Caroselli e con Lodovico Parini; quest’ultimo era assai esperto in matematica e in diritto ma aveva la passione per le lettere e la poesia.

Il Maccari amava anche frequentare i luoghi solitari, i campi, i boschi a contatto con la natura ove poteva trarre ispirazione. La schiera degli amici e dei veri estimatori del Maccari aumentava sempre più. Come riferirà più tardi Augusto Caroselli, uno della schiera degli artisti: “Incominciammo circa l’anno 1854 a ritrovarci ogni sera insieme nel Caffè Nuovo. La brigata era composta oltre il Maccari, il Parini e me, di Achille Monti, dei fratelli Domenico e Giuseppe Gnoli, di Lodovico Muratori, di Basilio Magni, di Domenico Bonanni, di Benvenuto Gasparoni e dei fratelli Maccari Leopoldo e Giuseppe. Qualche volta vi si aggiungevano il Castagnola, il Ciampi ed il Novelli.

Era quella conversazione oltre ogni dire piacevole e allegra… durò fintantoché non la sciolse la morte che ben cinque dei nostri si portò via in brevissimo spazio di tempo… Quanto alla forma poetica, alla lingua e allo stile, noi consentivamo pressoché in tutto; ed in qualche raccolta di versi che pubblicammo, questa conformità di sentire fu notata e ritenuta per carattere della Scuola Romana. Certamente era in tutti comune la cura dell’espressione, la quale tenevamo non potersi riguardare come cosa esteriore e come semplice veste, ma sibbene come istrumento e determinazione del pensiero, ed ugualmente sentivamo dell’armonia.

Quanto alla lingua non ci parve mai che l’Italia ne mancasse; ma stimammo invece di possederne una bellissima, ricchissima e piena di potenza; né reputammo quella dei classici cosa morta, perocché la sentivamo e la sentiamo vivere tuttavia nelle bocche del popolo, massime dove non venne corrotta dal dominio, dalla preponderanza o dalla moda straniera.  Onde studiavamo i classici riscontrandoli con la lingua parlata”.

Quindi la Scuola Romana si affermò tra il 1850 e il 1870. “Questa – come dice il Filosa, uno dei più seri studiosi dei Fratelli Maccari –  dalla primitiva posizione puristico-arcaicheggiante, pur non esente da infiltrazioni dello spiritualismo romantico sulle orme del Leopardi e soprattutto di Giuseppe Maccari, e forse anche per influenze climateriche dell’incipiente realismo, perviene ad una posizione decisamente classico- antiarcadica”.“Una società di valentissimi giovani… la quale, presi a guida i sommi latini ed italiani, cerca di opporsi alla scuola arcadica o frugoniana che teneva e tiene tuttavia il campo nelle romane accademie”: così riportando testualmente le parole di uno dei più nobilmente devoti, anche se letterariamente meno operosi, segaci di essa, il Codronchi, Giacomo Zanella la definiva nel 1869 in un’ammirativa recensione alle nuove poesie di G.B. Maccari apparse l’anno medesimo”.

Fin dall’inizio quando si costituì il gruppo di giovani che si incontravano al Caffè Nuovo Maccari conobbe il duca Giovanni Torlonia, il quale era un appassionato cultore di lingue e letterature straniere, ma poco esperto di letteratura italiana. Ma stimolato dal Maccari vi si dedicò con impegno e sarebbe diventato un valente scrittore se fosse vissuto più a lungo. Fece pubblicare a sue spese le poesie di G. Battista Maccari. Come scrive il Caroselli “Quei lavori del Maccari hanno tale perfezione di stile e tanta dote di gentilezza, che ritraggono certamente il più bel tempo di nostra lingua. Ma ottimi fra tutti sono quelli degli ultimi anni; nei quali scioltosi affatto dalle rimembranze degli antichi scrittori e recatasi in pieno potere l’espressione lo stile prese un impronta originale quasi accoppiando la greca naturalezza colla forza del sentire italiano”.Il fratello Giuseppe si dedicò in modo particolare allo studio del greco, leggendo quegli autori più vicini alla sua sensibilità, facendone partecipe anche suo fratello Giovanni Battista.

Questi nel 1864 tradusse le odi di Anacreonte e nel 1865 le Opere e i giorni di Esiodo, dedicandole a Dante di cui ricorreva il centenario della Nascita. Tradusse anche i frammenti dei comici e vi aggiunse anche la traduzione delle iscrizioni triopee opera del fratello Leopoldo. La traduzione di Anacreonte è stupenda per la resa in modo personale, da poeta, in lingua italiana. Non così quella di Esiodo per il fatto che è rimasto troppo vincolato alle strutture della lingua greca sacrificando talvolta l’italiano. Riuscì ad avere un posto di archivista nella direzione degli archivi, lavoro poco consono alla sua indole e ai suoi studi, tuttavia poté raggiungere una maggiore autonomia economica con l’aiuto di Leopoldo e di Giuseppe, sicché dopo qualche tempo chiamò a Roma il resto della famiglia: la madre, la sorella Teresa, Luigi e Sisto. Per la famigliola sembrò che le cose andassero per il meglio, ma il peggio doveva ancora venire. Intanto seguitava sempre a dedicarsi alla poesia e i suoi versi li recitava agli amici intimi ma non li metteva per iscritto, sebbene fosse sollecitato in tal senso dagli amici stessi. Ma a metà anno del 1866 cominciarono le sventure.

Dopo lunga malattia morì il 7 luglio il fratello Leopoldo, il quale lasciò la moglie e il figlioletto. Giovanni Battista si prese cura anche di questo piccolo nel quale rivedeva il diletto fratello. Intanto anche il fratello Giuseppe da tempo malaticcio subì un  improvviso tracollo, poiché la malattia si manifestò in modo dirompente (tisi), sicché il 18 marzo 1867 morì. Assistette i due fratelli con amore e con affetto continui al punto che la salute ne risentì, anche le forze cominciarono a venir meno, i capelli ad incanutire precocemente. Inoltre un fastidio alla gola lo tormentava da tempo. Trovava conforto nella poesia e nell’affetto dei numerosi amici, ai quali si aggiunse un altro giovane Pietro Codronchi di Imola. Diradava anche le uscite da casa per cui quando gli amici lo vedevano notavano il continuo deperimento. Alla fine dell’estate dietro invito di Codronchi si recò ospite dell’amico in Romagna, nella speranza che la bontà dell’aria, il riposo e il contatto con la natura potessero giovare alla sua salute. Ma il freddo precoce dell’autunno peggiorò la situazione. Arrivato al mese di ottobre non si rese conto della gravità della sua malattia.

Morì in 19 ottobre 1868. Il Caroselli ne fa un piccolo ritratto fisico dicendo: “Fu il Maccari di giuste forme e statura, biondo di capelli che portava all’ordinario lunghi quasi fino al collo, di corta vista e sguardo vivace, bianco e di buon colorito. Camminava con la testa alta e poco curava di ciò che gli passava attorno, vestiva semplice e pulito. Oltre la fantasia e l’affetto di vero poeta, ebbe memoria felicissima, fu amorevole con tutti, tenerissimo con i parenti e con gli amici…”.

Per quanto riguarda la sua poesia poetica si rimanda all’apparato bibliografico. Che cosa possiamo dire a proposito della Scuola Romana e dei Fratelli Maccari? Purtroppo la critica non ha tenuto nella giusta considerazione né l’una, né gli altri a causa di un giudizio negativo del Croce, espresso nella “Critica, anno IV, 1906, fascicolo I, p. 19 e segg.”.  Uno degli studiosi che hanno rivalutato la Scuola Romana e i fratelli Maccari è stato il Filosa con uno studio assai analitico e con una particolare sensibilità, il quale si rammarica del giudizio negativo del Croce che afferma: “come parodia suonano sovente i versi dei poeti della cosiddetta scuola romana e di quello che era considerato come il loro maggiore ingegno, Giovan Battista Maccari, il quale alla sua donna nel partir da lei per visitare la propria madre favellava a questo modo :

La vedovella mia che m’ama tanto, mi scrive che vi preghi in cortesia che mi lasciate andare, o Donna mia, per qualche giorno ad asciugarle il pianto …

Ma il più vicino maestro di codesti verseggiatori romani era il Leopardi, che il Maccari riecheggiava sovente . . . Cose, come si vede, assai fredde. Degli altri di quella scuola, il Maccari Giuseppe, il Castagnola, Achille Monti, Ignazio Ciampi, Fabio Nannarelli, non mette conto di discorrere . . . Anche quando i sentimenti che essi esprimevano avevano del sincero, la forma era posticcia, ma spesso i sentimenti stessi erano suggeriti o comandati dalla forma tradizionale: che è poi quel che si chiama banalità”.

Oltre al Filosa il quale ha fatto dedicare ai fratelli Maccari l’istituto Magistrale di Frosinone, è merito del Sapegno nel suo compendio di storia della letteratura italiana, Firenze 1956, vol. III, pp. 306-307, aver dato una valutazione positiva dell’attività poetica dei fratelli Maccari. Ma leggiamo direttamente le parole del Sapegno: “Forse – scrive il Sapegno – è più notevole e più ricca di suggerimenti nuovi, sebbene svoltasi in un clima appartato e con scarse risonanze e oggi quasi del tutto dimenticate, l’esperienza dei poeti della cosidetta Scuola Romana, tra i quali emergono sopratutto le figure di Giambattista Maccari (1832-1868) e del suo minor fratello Giuseppe Maccari (1840-1867).

Il loro amore per la tradizione è più schietto, più ingenuo e anche più vario; il loro classicismo non è quello dei neo-classici: da un lato risalgono ai Greci, alla gentilezza di Anacreonte, alla pura semplicità di Esiodo; dall’altro, vanno in cerca nei vecchi libri delle intonazioni di una fantasia popolaresca, gracile e musicale e riecheggiano le ballate dei fiorentini del Duecento, del Sacchetti, del Poliziano, di Olimpo da Sassoferrato, e il Petrarca più tenue e melodico. Inoltre risentono da vicino dell’influsso del Leopardi e si sforzano di riprodurre i modi, non dove è più alto e metafisico, sì dove la sua rappresentazione si fa più minuta e precisa, aderente al particolare con tocchi lievi e pieni di tenerezza.

Se in questo sforzo di assimilare i temi del Leopardi idillico essi son quasi soli al loro tempo (e ciò basterebbe a meritar ai loro versi una maggiore attenzione da parte dei critici), d’altro canto il loro classicismo irrequieto e delicato, quel vagheggiamento di fantasie stilnovistiche e quattrocentesche preannunzia abbastanza nettamente una tendenza di taluni carducciani e, a tratti, del Carducci stesso. Vero è che si tratta di una attività tutta sperimentale, di una lunga e amorosa esercitazione, cui non arrise mai, o quasi mai il conforto di una raggiunta perfezione poetica”. Con il Sapegno, come si nota, ci si avvia ad una sincera rivalutazione dell’opera dei fratelli Maccari, che dal Flora sono ritenuti veri poeti: « … Giambattista e Giuseppe Maccari appartennero di diritto alla cosiddetta Scuola Romana che si proponeva di serbar fede alle forme della poesia classica. Ma, come avviene, essi debbono alla schiettezza dell’ispirazione bene accordata a quelle tradizioni e schiva di pedanteria, il meglio della loro arte. Aggiungerei un sapore qua e là realistico, nato dalla diretta osservazione e che conferisce al loro versi una freschezza un po’ acerba, in cui consiste molta parte del loro incanto”.

Testo scritto da Umberto Caperna e tratto da: http://www.comune.frosinone.it/frusna/personaggi_illustri/maccari_giovannibattista.htm

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